domenica 14 dicembre 2014

2A - L'aggressività

Parlando di aggressività abbiamo parlato di comportamenti. Impossibile non citare il padre dell'etologia, Konrad Lorenz.

Konrad Lorenz nasce a Vienna nel 1903. Studia medicina a New York e a Vienna, laureandosi nel 1928. Nel 1933 consegue anche la laurea in zoologia. Durante il conflitto viene fatto prigioniero dai russi. Nel 1949 viene pubblicato L’anello di Re Salomone (di cui abbiamo letto in classe un brano), destinato a rimanere la sua opera più celebre insieme a E l’uomo incontrò il cane, del 1950. Negli anni 1961-1973 è Direttore dell’Istituto Max Plank per la fisiologia del comportamento di Starnberg, in Baviera. Nel 1973 gli viene assegnato il Nobel. Lorenz estende i suoi interessi alla sfera sociale e culturale. Dall’etologia animale si passa così all’etologia umana. Il cosiddetto male, del 1963, affronta il tema dell’aggressività intraspecifica.




In questo scritto Lorenz sostiene che l’aggressività è un comportamento innato, impossibile da far derivare dai soli stimoli ambientali. L’aggressività sarebbe quindi una componente strutturale di ogni essere vivente che svolge un ruolo fondamentale nella sopravvivenza della specie.
Basti pensare alla conflittualità per la delimitazione del territorio, la scelta del partner nella riproduzione, la formazione di gerarchie all’interno del gruppo. Il libro suscitò polemiche violentissime, dato che Lorenz estese le sue riflessioni all’ambito umano.
Questo perché esistono diverse scuole di pensiero per spiegare l’aggressività della nostra specie: i comportamentisti ritengono che tutti i comportamenti derivano dalle influenze e dagli stimoli ambientali, che, modificati, modificherebbero gli stessi comportamenti. Lorenz, al contrario, considera l’istinto un dato originario, geneticamente condizionato, innato.
L’opera di Lorenz non è però un’apologia della violenza e della guerra; semplicemente mette in guardia dalle utopie che non tengono conto del funzionamento dei comportamenti innati.
Giorgio Celli, etologo e scienziato italiano che scrisse una prefazione al testo di Lorenz, distingue tra aggressività e predazione.

Giorgio Celli, etologo, entomologo e gattaro
Celli considera aggressività solo quella intraspecifica, tra membri della stessa specie.
L’aggressività interspecifica (ad esempio quella del leone con la gazzella) è invece predazione, che risponde al bisogno di sopravvivere e di nutrirsi.
Perché esiste in natura l’aggressività?
Nel mondo animale l’aggressività svolge fondamentalmente alcuni compiti:
 - tra individui maschi per assicurarsi l’accoppiamento e riprodurre il proprio patrimonio genetico
- stabilire gerarchie nel branco (come nei lupi)
 - circoscrivere un territorio che fornisce risorse preziose per la sopravvivenza.

Del primo caso di aggressività, l’esempio riportato è quello della lotta rituale tra i cervi, a suon di cornate. È lotta ritualizzata, che non ha lo scopo di uccidere l’altro maschio.
Tra i lupi, e i loro discendenti cani, la lotta ha sempre e solo lo scopo di stabilire una gerarchia, mai quello di uccidere l’avversario. Chi perde nello scontro, infatti, si mette pancia all’aria e mostra il suo punto più debole, cioè la giugulare. Solo i cani addestrati per i combattimenti arrivano ad uccidere l’avversario.
Celli racconta di un pettirosso che una volta insediatosi in un albero, reagiva in modo aggressivo nei confronti di tutti gli altri pettirossi. In questi casi l’aggressività ha una funzione utile per la sopravvivenza della specie: l’allontanamento dei rivali da un certo territorio è utile perché in questo modo gli individui che perdono sono costretti ad occupare nuovi territori, diffondendo così la specie.

Gli studi antropologici di Margaret Mead (Sesso e temperamento, 1967) su diverse società della Nuova Guinea, dicono che l’aggressività in queste società si manifestava questo modo: la tribù Arapesh risultava essere particolarmente mite; mentre i Mundugumor mostravano comportamenti fortemente aggressivi e crudeli.

L'antropologa Margaret Mead nel 1978
Negli Arapesh non c’è assenza di aggressività, bensì esiste una diversa “gestione” dell’aggressività: Margaret Mead scrive che i ragazzi arapesh vengono educati a scaricare l’ira non su altri ragazzi ma su oggetti: se due ragazzi, mentre giocano, vengono a lite, subito interviene un adulto e li separa, l’aggressore viene allontanato dal luogo di gioco e trattenuto; egli può poi battere i piedi per l’ira, gridare, rotolarsi nella sporcizia, gettare a terra pietre e ceppi di legno, ma non può toccare altri ragazzi!

Queste osservazioni suggeriscono alcune considerazioni relative all’educazione: l’educazione può incidere sulla modalità di gestione dell’aggressività e canalizzarla diversamente, impedendo di scaricarsi in forma violenta su altri esseri umani.

Come è nata la degenerazione dell’aggressività in violenza?
La spiegazione di Celli è storico-tecnologica: sta nell’invenzione di nuove armi che consentono l’ uccisione del nemico da una distanza crescente. Questo fattore ha azzerato i naturali meccanismi di inibizione, presenti probabilmente nella primitiva lotta corpo a corpo.
Per esempio, chi ha sganciato le bombe su Hiroshima e Nagasaki, oltre ad forti motivazioni ideologiche, ha dovuto semplicemente premere un pulsante: non ha visto né avuto percezione diretta e immediata delle conseguenze del suo gesto.
Esiste infine la diversità culturale nell’affrontare l’aggressività e la sua degenerazione in violenza: esistono culture che enfatizzano la competizione e la violenza, a scapito dell’empatia e della cooperazione. Per Celli è indicativo osservare i mass media e la comunicazione pubblicitaria. I mass media e la pubblicità offrono micronarrazioni mitiche che stimolano le pulsioni sessuali e aggressive. Se l’aggressività è una pulsione umana ineliminabile, bisogna interrogarsi seriamente su come questa pulsione possa essere gestita in modo non distruttivo, così come ci insegnano i nostri parenti animali!

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