Il monaco benedettino copiava nella sua cella seduto con il codice sulle ginocchia, a volte usando una tavola di legno come appoggio. Solo più avanti, nel Basso Medioevo, si usavano un leggio o un tavolo.
La parola amanuense deriva dal latino servus a manu, il temine con cui i romani chiamavano gli scribi. I monaci amanuensi vivevano molte ore della giornata nello scriptorium; a loro veniva permesso di saltare alcune ore canoniche di preghiera.
Ecco come nel best seller Il nome della rosa [Bompiani, Milano, 1980, pp. 79-91] lo scrittore Umberto Eco descrive lo scriptorium:
... lo scriptorium ... si offriva quindi ai miei sguardi in tutta la sua spaziosa immensità. Le volte, curve e non troppo alte (meno che in una chiesa, più tuttavia che in ogni altra sala capitolare che mai vidi), sostenute da robusti pilastri, racchiudevano uno spazio soffuso di bellissima luce, perché tre enormi finestre si aprivano su ciascun lato maggiore, mentre cinque finestre minori traforavano ciascuno dei cinque lati esterni di ciascun torrione; otto finestre alte e strette, infine, lasciavano che la luce entrasse anche dal pozzo ottagonale interno.
L’abbondanza di finestre faceva sì ché la gran sala fosse allietata da una luce continua e diffusa, anche se si era in un pomeriggio d’inverno. Le vetrate non erano colorate come quelle delle chiese, e i piombi di riunione fissavano riquadri di vetro incolore, perché la luce entrasse nel modo più puro possibile, non modulata dall’arte umana, e servisse al suo scopo, che era di illuminare il lavoro della lettura e della scrittura. ... mi sentii pervaso di grande consolazione e pensai quanto dovesse essere piacevole lavorare in quel luogo. Quale apparve ai miei occhi, in quell’ora meridiana, esso mi sembrò un gioioso opificio di sapienza.
Vidi poi in seguito a San Gallo uno scriptorium di simili proporzioni, separato dalla biblioteca (in altri luoghi i monaci lavoravano nel luogo stesso dove erano custoditi i libri), ma non come questo bellamente disposto. Antiquarii, librarii, rubricatori e studiosi stavano seduti ciascuno al proprio tavolo, un tavolo sotto ciascuna delle finestre. E siccome le finestre erano quaranta (numero veramente perfetto dovuto alla decuplicazione del quadragono, come se i dieci comandamenti fossero stati magnificati dalle quattro virtù cardinali) quaranta monaci avrebbero potuto lavorare all’unisono, anche se in quel momento erano appena una trentina. Severino ci spiegò che i monaci che lavoravano allo scriptorium erano dispensati dagli uffici di terza, sesta e nona per non dover interrompere il loro lavoro nelle ore di luce, e arrestavano le loro attività solo al tramonto, per vespro. I posti più luminosi erano riservati agli antiquarii, gli alluminatori più esperti, ai rubricatori e ai copisti. Ogni tavolo aveva tutto quanto servisse per miniare e copiare: corni da inchiostro, penne fini che alcuni monaci stavano affinando con un coltello sottile, pietrapomice per rendere liscia la pergamena, regoli per tracciare le linee su cui si sarebbe distesa la scrittura. Accanto a ogni scriba, o al culmine del piano inclinato di ogni tavolo, stava un leggio, su cui posava il codice da copiare, la pagina coperta da mascherine che inquadravano la linea che in quel momento veniva trascritta. E alcuni avevano inchiostri d’oro e di altri colori. Altri invece stavano solo leggendo libri, e trascrivevano appunti su loro privati quaderni o tavolette. ...
I manoscritti medievali sono alla base delle nostre edizioni moderne.
Studiare le opere classiche trasmesse attraverso i manoscritti significa confrontare ogni copia manoscritta conservata perché solo in rarissimi casi sono sopravvissuti gli originali.
Le opere che si leggono a scuola sono state ricostruite a partire dal confronto tra manoscritti conservati in biblioteche ed archivi. Naturalmente le copie non erano esenti da errori. Una leggenda attribuisce a un diavoletto, chiamato Titivillus, la responsabilità di questi errori.
Guarda qualche immagine tratta da codici antichi.
Le prime due sono l'ultima terzina dell'Inferno di Dante Alighieri, e la prima terzina dello stesso. La prima è la scrittura di Giovanni Boccaccio, un altro importante autore italiano, l'autore del Decameron. La seconda è una copia fatta dal Maestro Galvano. Ci sino altri manoscritti, il cui elenco si può vedere sul sito www.danteonline.it
Trascrizione:
Salimmo suso el primo (et) io secondo
tanto chio uidi delle cose belle
che porta il ciel p(er) un p(er)tugio tondo
Et quindi uscimmo ad riueder le stelle
Trascrizione:
Nel meço del camin de nostra uita
Me ritrouai per una selua scura
Che la drita uia era smarita
Questa invece è l'immagine di una pergamena conservata nel Monastero di San Gallo in Svizzera. E' una copia eseguita verso l'880-890 dei libri I-X delle Etymologiae di Isidoro di Siviglia († 636). Tutte le informazioni sono sul sito http://www.e-codices.unifr.ch/it/list/one/csg/0231
Arithmetica et disciplina numerorum. Graeci enim numerum ἀριθμόν dicunt. Quam scriptores saecularium litterarum inter disciplinas mathematicas ideo primam esse voluerunt, quoniam ipsa ut sit nullam aliam indiget disciplinam.
Traduzione:
L’aritmetica è la disciplina dei numeri. I Greci chiamano il numero aritmon. Gli scrittori di materie secolari hanno voluto che fosse la prima tra le discipline matematiche proprio perché essa non necessita di altre discipline. Invece la musica, la geometria e l’astronomia, che seguono, hanno bisogno del suo aiuto per esistere.
Questo libro, le Etymologiae, può essere considerata la prima Enciclopedia della cultura occidentale. Fu redatta dal sapiente Isidoro di Siviglia, morto nel 636, sul finir della sua vita. Il titolo spiega il metodo metodo utilizzato da Isidoro per insegnare: spiegare il significato di una parola attraverso la comprensione della sua etimologia. E' suddivisa in venti libri in cui sono elencate parole che condensano la conoscenza umana del tempo di Isidoro. Per gran parte del Medioevo, è stato il testo più utilizzato per fornire un'istruzione educativa.
Per finire, ecco qualche disegno tratto da una raccolta di "scarabocchi" che i copisti facevano a margine dei testi che copiavano ( o forse sono pasticci aggiunti successivamente):
Sono stati raccolti e catalogati da uno storico del medioevo, Erik Kwakkel, che li chiama i doodles dell'antichità.
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